mercoledì 13 luglio 2011
lunedì 11 luglio 2011
Notizie dal mondo
Notizie dal mondo
venerdì 8 luglio 2011
Venerdì con Zio Tibia
E quando leggevo Stephen King?
Francesco mi ha detto che in Giappone, lì dove ha vissuto tre anni, ad Agosto si festeggia il giorno dei morti, e i ragazzi del posto allestiscono un curioso gioco : il gioco delle 100 candele. Si riuniscono in un luogo aperto, tipo in un giardino, e piantano nel terreno 100 candele.
Una gran paraculata!
Per Francesco, pero', la stagione della paura è l' inverno.
Che stupidata vero?
Eppure al ritorno a casa, da solo, alle due del mattino, un po' c' ho pensato e mi è parso di vedere intorno a me, fermi davanti ai bar, aggrappati alle panchine di una villa, in fila per un noto locale, un sacco di morti; morti che non sapevano nemmeno di essere stati un tempo vivi.
E io con loro.
giovedì 7 luglio 2011
Campanili
mercoledì 6 luglio 2011
La domenica del giorno prima
martedì 5 luglio 2011
Campanelle
lunedì 4 luglio 2011
Io sono tua madre
sabato 2 luglio 2011
Resistere
Resistere. Resistere.
venerdì 1 luglio 2011
Senza titolo
mercoledì 29 giugno 2011
Loro sono tamarri, e tu?
Loro sono tamarri, e tu?
martedì 28 giugno 2011
La sfera
lunedì 27 giugno 2011
Alla ricerca del Nintendo perduto
sabato 25 giugno 2011
Samaritani
giovedì 23 giugno 2011
Una pecora, due pecore, tre pecore...
Waiting for
mercoledì 22 giugno 2011
L'inedia
martedì 21 giugno 2011
Secessioni temporali
lunedì 20 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
Notte
venerdì 17 giugno 2011
Quaderno di scrittura III
giovedì 16 giugno 2011
Cazzate googleiane
mercoledì 15 giugno 2011
Quaderno di scrittura II
martedì 14 giugno 2011
Pensieri di vecchi
lunedì 13 giugno 2011
sabato 11 giugno 2011
Schegge teatrali II
Re: "Le nuvole tacciano,
i venti smettano di incatenare
l'aria! Chi siete, o nubi di bianca
essenza, liberate
la mia aria! Stirpe di sogni
malata di guerre, pensieri
che la mente dipinge su di voi...
Basta! Che io liberi l'aria
da quei boccioli di rose che la
contengono come ambra.
O rose, madri del cielo
che ho sotto casa, smettete di
urlare all'acqua e dite
il vostro nome: voi
di chi siete?"
(Il re si mise coll'orecchio sempre più
vicino ai petali. Nessuna risposta
né suono da questi.)
Re: Ah! Voi rose, andate d'accordo
solo con le donne!
L.M
venerdì 10 giugno 2011
Quaderno di scrittura I
giovedì 9 giugno 2011
Ragazze in bicicletta
Le ragazze hanno l'aria di pedalare davvero per un secondo fine, quando sono in bicicletta.
Grosse o minute, bianche o scure, a loro la bicicletta in sé non importa: importa con chi si va, se sono in più d'una, o unicamente dove si va - è raro trovare una ragazza che pedali sola.
Una volta, tuttavia, m'è successo. Aveva le gote rosse, era un po' sovrappeso, forse anche un po' affaticata, ma per nulla disturbata dal traffico e da me che la stavo osservando. La realtà immediata, esclusa la strada, era insomma opzionale. La giacchetta legata fiaccamente ai fianchi le dava un'apparenza da apprendista di qualcosa…di qualche strano alchimista che, magari, aveva inventato la pozione perfetta per digerire l'insopportabile di ogni cosa e dimenticare il traffico.
Perché le donne devono sempre pensare ben al di là...?
L.M
mercoledì 8 giugno 2011
Tornare a casa
Sempre più convinto che siano una realizzazione per alcuni, per altri, non per tutti.
Per me a 15 anni era un sogno; a 20 l' avrei fatto senza batter ciglio; adesso vorrei saltare a piè pari questa mezza età, l'età in cui devi farlo per forza, presto e subito, perché è l'ultimo arco di tempo in cui sei ancora appetibile per qualcuno che, come te, ha paura di rimanere solo.
E quindi?
Nulla, solo stupide riflessioni mentre, sbattuto su un divano, aspetto di tornare a casa.
martedì 7 giugno 2011
Delicatezza cinese
lunedì 6 giugno 2011
The evening star
sabato 4 giugno 2011
Schegge teatrali I
venerdì 3 giugno 2011
giovedì 2 giugno 2011
La bellezza esiste
mercoledì 1 giugno 2011
martedì 31 maggio 2011
Alla luna
lunedì 30 maggio 2011
Aforismi III
domenica 29 maggio 2011
Via dei Pini
In macchina, sul sedile posteriore, nel bel mezzo della fila di nostra vita, ebbi... un sogno.
All'inizio c'era un bosco. La sensazione di spazio e lo sfiorarsi oscillante delle canne secche al sole, ai lati della strada, fu sospesa solo da un ronzio leggero di catene di bicicletta. Tre o quattro ne passarono – tutte con su una maglia rosa – e ugualmente agli insetti, arrivarono e se ne andarono in una manciata di secondi. Ero solo.
Alzandomi, i rami coprivano fino al cielo ciò che vedevo. Ne lasciavano tuttavia un oculo aperto alla sommità, come in un Pantheon consacrato alla Natura, o a Madre Terra, o a Madre Aria giacché era vuoto e la luce non scostava rami né disegnava ombre per terra. Si viveva e respirava quasi per inerzia, piante comprese. La dimensione umana si rimpiccioliva al suono dell'humus calpestato.
Avanzai un poco – sottilmente fiacco, però tanto sazio di vedere che vorresti fermarti a tratti per piangere su ciò che non ricordavi di aver visto, e ora vedi – e mi fermai. La via si inerpicava in fondo tra i pini come se fosse annodata ai rami, progressivamente sempre più su, sino a sfiorarne la cima, o magari la base del cielo. La cima in effetti era difficile da scorgere. Alle tredici l'ombra si adatta alle sagome e si nasconde sotto di esse, sotto i tuoi piedi, sotto qualsiasi cosa. Nessuno, nessuna cosa ha più la sua ombra; l'ombra cessa di esistere e ti lascia in pace per circa dieci minuti con la promessa che non vedrà dove vai.
Visto che l'ombra non cambiava, né avanzava per scrutare la strada prima di me, il sogno era tarato sempre sulla medesima ora. Non avevo orologio perché quando devo disegnare non lo indosso mai, portandolo per giunta sempre a destra.
Dopo essermi abbontantemente fermato, riprendo a camminare. La strada, come previsto, sale. Gli alberi salgono anch'essi; in compenso lasciano un po' più di spazio al cielo, che guardacaso si strappa sopra una zona più larga. Sotto, una casetta di legno odoroso. Ingrassato col gelso, forse, che là attorno abbondava. L'aria era anzi fatta di gelso, oltre a una vegetazione che espirava soltanto e fittamente. Non c'erano animali, gli uccelli si sentivano ma distanti. Il fruscio della vegetazione aveva, sentendolo,lo stesso fare elettrostatico delle canne secche, le stesse carezze lente e interminabili, lo stesso ronzio acuto e dissolto in marosi di foglie. Raggiunsi la casetta con foglie di tutti i colori sotto i piedi: la porta era socchiusa, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di chiuderla, visto che si reggeva soltanto attorno a scorze di legno più che al legno stesso, profondamente scorticato. Entro, e vedo delle sedie. Al loro centro un tavolo, con un foglio. E sul foglio era scritto ciò che mi ha fatto svegliare: ricordati di prenotare, la prossima volta.
L.M
sabato 28 maggio 2011
venerdì 27 maggio 2011
I bambini si producono?
I bambini si producono?
giovedì 26 maggio 2011
Aforismi I
mercoledì 25 maggio 2011
Lettera a quattro mani
Lettera a quattro mani
Ognuno di noi lascerà su questo foglio le proprie verità. Inizio io.
Lei gli strappa dalle dita la penna.
Aspetto, come mille volte in questi anni, che tu le scriva - e ripassa la penna a lui.
Vuoi che ti dica, Marilé, come stanno le cose?
Dimmelo. - ha scritto lei.
Chi aspetta cosa? - mette lui.
Aspetto l’amore. - dopo un punto ben marcato, depone la penna e lo guarda. Lui la tira verso di sé con delicatezza, e la solleva.
L’amore è la più riuscita buffonata in cui caschiamo interi. Chi ci casca
è per non dimenticarsi di dover vivere.
La penna la prende lei. Non fare troppo il filosofo, dice, e scrive un rigo più sotto:
Eppure vive, vive e muore.
Prendo la penna e lascio lì, di getto:
Poi ci siamo noi, eterni ingenui. Abbiamo o non avremo amato mai, respiriamo e ricordiamo cose. Passate o poco presenti, e amiamo quelle cose.
Continua - disse, preferendo lasciarmi scrivere. Non mi feci pregare una seconda volta.
Si sfiorano parti remote, sempre calde al punto giusto, delle cose amate e si amano ancora: un giorno ultimo pare doversi sempre rifissare.
A quel punto si riprese la penna. Scrisse:
E perciò siamo informali,
informali come l’acqua. Siamo fatti
per leggere e morire, leggere e morire,
eternamente.
L.M
martedì 24 maggio 2011
Il pelo nell'uovo
- Quindi non t'ha pagato?
- No no, il ragazzo ha perso pure il lavoro.
- Certo, una figa poteva pure fartela conoscere?!
- Ma una tipa me l'ha fatta conoscere.
- Davvero?
- Sì, sì, una ragazza, pure interessante. Studia giurisprudenza, è intelligente, simpatica, direi brillante. Non è una di quelle persone che sta sempre in silenzio, anche conoscendoti poco cerca subito di metterti a tuo agio, e ci riesce senza esagerare. Riesce a parlare di tutto, da " che tempo che fa" ai massimi sistemi dell' universo. Pensa che una volta abbiamo chiacchierato per due ore senza accorgercene! Nell' abbigliamento è curata, ma non esasperata, e non bada a quel che fai, a quanti soldi hai in banca o a cosa fa tuo padre, affatto, è una persona molto alla mano. E' in salute, mangia con piacere mantenedo, comunque, una certa grazia. Legge molto e di tutto, ed e' anche in grado di commentare accuratamente le proprie letture. E' appassionata di cinema, e sa suonare il piano. Da piccola ballava anche, adesso ha smesso, non so bene perché. Ecco, un difetto ce l'ha. Oddio non è proprio un difetto, diciamo che se proprio devo esser pignolo,
se proprio devo andare a vedere il pelo nell' uovo, di contro a tutti i suoi pregi, ai suoi mille aspetti positivi, al suo fantastico carettere, ecco, purtroppo c'ha il cazzo. Purtroppo.
lunedì 23 maggio 2011
45° minuto
45° minuto
“Non uscire da quella porta, non andartene”. La voce era percepibile appena.
Erano fuori dal campo da 45 minuti, lui e suo padre. Sentivano la partita combattersi al di là degli spalti. Ci erano abituati: tra di loro parlavano alle opposte estremità di una spalliera, il padre accucciato a terra e il figlio un po' su, con la testa sotto il cuscino. Ogni mattina era stato così, tranne quella, perché il padre gli aveva detto che il posto allo stadio se lo dovevano guadagnare.
Seduto, con il braccio penzoloni dal finestrino completamente aperto, il ragazzo boccheggiava cogli occhi alzati, per notare ogni sgualcitura del rivestimento sotto il tettuccio dell'auto. Il padre, mani sul volante sin dall'inizio, gli sedeva accanto. Lui però vedeva la polvere sul cruscotto alzarsi a ogni “gol!” che la radio emetteva dalla piastra dell'altoparlante. Erano stanchi tutt'e due, stanchi uno dell'altro.
Ad un tratto il padre si girò a guardare il figlio appeso al cotone grigio che gli sormontava la testa.
“Ehi, andiamo via. Ti va? In fondo, non è poi così bello starsene fuori al sole per un pallone che neanche vediamo, semmai.. lo vedremo, no?”
Il ragazzo girò piano la testa. “Sì, dai, andiamo” disse, e si drizzò sul sedile.
Fecero il giro attorno allo stadio, poi sulla tangenziale che lo incarta e lo stringe in un fiocco, come un pacco regalo.
Raggiunsero presto la campagna. Il ragazzo non fiatava: sporgeva appena la mano e con le dita sfiorava l'erba secca e qualche spiga che si avventurava lungo la strada. Aveva nostalgia di quelle tante e piacevoli cose che facevano insieme una volta. Sentiva nell'erba, comunque, la forza dell'infanzia che proprio non gli era passata; con l'odore di verde tanto forte, la sua voglia di giocare con le spighe era perenne.
“Papà” - iniziò - “tu mi vuoi bene? Bene davvero?”
Lui si girò di colpo, a rischio di sbandare.
“E tu? Io sì, ma tu non mi pare” e tacque. Solo la strada, sempre la strada, si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali e gli luccicava negli occhi. La radio era ancora accesa: ma erano troppo concentrati l'uno sull'altro per accorgersi delle grida che vi provenivano. La polvere, il cotone grigio ingiallito dal tempo, la voce del cronista, la partita non avevano più senso per loro.
Immediatamente si guardarono fissi, e risero. Risero del mondo, che li voleva far fuori.
L.M
sabato 21 maggio 2011
‘Patasabato VII
Ecco, al VII, la mia definizione:
La ‘patafisica è l'idea innata per eccellenza.
Le soluzioni immaginarie sono idee innate; eppure sono le più difficili a comprendersi. Non c'è nulla da sapere: bisogna solo esser capaci di leggere le cose al contrario, rovesciando loro le maniche. La ‘patafisica non si insegna nelle scuole, ma si vive: la vita stessa rischia di diventare la soluzione immaginaria di se stessa. Pensando da carcerati - della propria mente - pur stando fuori a deriderci mentre ci affacciamo dalle sbarre. E' morire al contrario, con gli occhi che si aprono. E' giocare a fare i pazzi quando si è i più savi del mondo. In fondo, come ha avuto occasione di dire Miller, i pazzi sono quelli che hanno accumulato un gran numero di follie ragionevoli, non vi pare? Saremo pure pazzi, noi ‘patafisici, ma ci divertiamo..... . .
L.M
venerdì 20 maggio 2011
Novanta
- Che stai facendo?
- In realtà nulla, oggi ho la pausa. Sto cercando uno sfondo per giugno.
- Non hai proprio un cazzo da fare?!
- Eh già...
- Quando ci vediamo?
- Scendo oggi pomeriggio, verso le sei.
- Vabbè, ma visto che non hai impegni perchè non scendi stamattina?
- Ok dài, a che ora ci vediamo?
- No, io non ci sono, ho da fare.
giovedì 19 maggio 2011
Il primo figlio
mercoledì 18 maggio 2011
I Potenziali Evocati
martedì 17 maggio 2011
Vedo dall'attico
Vedo dall'attico
Vivo in una stanza all'altezza delle rondini.
Anzi, più che una stanza, è lo spazio che circonda una finestra. Da lì vedo, e faccio entrare, ciò che c'è fuori senza che io mi sporga troppo; le auto, le grida, la pioggia, ogni cosa.
Matt, il cane, aspetta nell'unico angolo buio e infangato per sembrare più bestia e non avere quell'aria da innocuo pensionato anzitempo. Non ha mai sofferto, poveretto, perché cerca di non lamentarsi mai: quando lo fa, è perché non ha altro da fare. Quella mattina fu così, ché pioveva forte: da tempo immemorabile si perpetrava quella specie di veglia rituale. Non voleva che io disegnassi quella stramaledetta cosa; invidia canina o altro, gli dava fastidio perché semplicemente mi dimenticavo troppo di lui.
Dalla terra emergeva l'acre odore di pioggia che di solito battezza il mondo ad ogni acquazzone. Anche minimo, a lui dava fastidio. Non si era in chiesa: la chiesa era l'aria.
Spesso, dopo questa benedizione divina, ci si trova coi capelli bianchi. E angeli – se è questo il punto – giovani e pure saggi non lo si diventa mai. Angelo è chi ha aspettato che per anni la pioggia gli cadesse sul viso, sugli occhi, sulle ali. Con le ali inzuppate non si vola, e ognuno di noi ha smesso di volare – per sempre – per poter stare un po' qui, tra i dannati di questa Terra. Ognuno è libero di scegliere.
Denigrato, ha alla fine accettato il compromesso di evaporare senza rumore alcuno, senza aver mai ricevuto amore, avendo solo assistito al pianto più sincero della natura, essendone colpito. E ha capito: ha capito che uomo e natura son due cose diverse, e doveva, o poteva soltanto, morire da uomo. L'amore non lo aspettava più.
A costui, che resta? Un cane, magari.
Si aspetta che il mondo svanisca sotto gli starnuti di qualche dio, semmai passerà di qui, si aspetta che tutto finisca - con la pioggia, in una pozza d'acqua dimenticata ch'é il capro espiatorio delle nuvole – e venga poi il resto.
Amare è difficile almeno quanto aspettare la pioggia per disegnarla.
Il foglio è lì, pronto da un pezzo. Sono io che tutte le volte non sono pronto.
Se la luce la finisse di colpire quel foglio e ricordarmene! Gli occhi restano sempre appollaiati su quei cumuli di vapore, lasciti di poderose navi e vele loro stessi, che si sparpagliano e seminano.
Anche quando non lasciano cadere nulla, riempiono il cielo e mi attraggono.
Matt si stende sul mezzo divano alle mie spalle, e con due movimenti di coda rovina tutto. Fa cadere libri, disegni, matite e mi guarda come un imbecille.
“Già,” - gli dico – “ l'imbecille sono io”.
Apro la finestra e lascio solo entrare la luce, la sera. I lembi viola del retro degli ammassi bianchi si trascinano malaticci al vento, come lune dalla faccia buia - paiono sfiorare le case che lambiscono con mani protese - si riformano per centinaia di migliaia di volte senza perdersi di vista, neanche per poco. Che sfiga, essere omuncoli di carne, e non poter vivere così. Io non ho ancora disegnato la mia maledetta pioggia.
Finalmente, dopo qualche giorno, posso iniziare. Scorre lieve e a puntini che paiono immobili, una pioggerella dei primi di agosto. Alcune gocce risalgono mentre le altre scendono dopo aver urtato il davanzale. Matt si lamenta con guaiti moderati e insistenti.
“Sta' zitto, ora che ci riesco” e punto la matita sul foglio come un'unghia così forte che la mina si incrina. Trattengo la rabbia e la punta che vuol saltare via. Disegno. Vengon fuori delle lineette sottili e nervose. Il sole si è spento allora, e le nubi son tutte viola; un po' di arancione è rimasto sulla cima e s'infiltra verso gli strati più bassi.
La pioggia picchiettava intanto il foglio sul serio. Matt era fradicio, spruzzato da spilli d'acqua dal muso alle zampe, ed ebbe l'infima idea di dare un'ultima secchiata a me e al foglio trasformandosi in una centrifuga vivente. Poi tornò calmo e indifferente. Lui era me, io la bestia.
Lo presi per il collare e lo spostai nell'angolo di sua pertinenza, dove doveva stare.
Fuori è grigio, quasi buio. Ma continua a piovere. Si sentono le gocce che s'infrangono sulle lamiere come le onde marine sui loro scogli, di notte, proprio quando nessuno o pochissimi riescono a sentirle.
Lasciai la finestra aperta; io mi sedetti di fronte, abbastanza lontano per non prendere la pioggia addosso. L'indomani, vidi che il foglio era distrutto. Della pioggia che l'aveva reso così non c'era più traccia, il cielo era limpido. Le nuvole avevano fatto la stessa fine.
Matt me lo aveva sempre detto, che non ero un angelo.
L.M