Vedo dall'attico
Vivo in una stanza all'altezza delle rondini.
Anzi, più che una stanza, è lo spazio che circonda una finestra. Da lì vedo, e faccio entrare, ciò che c'è fuori senza che io mi sporga troppo; le auto, le grida, la pioggia, ogni cosa.
Matt, il cane, aspetta nell'unico angolo buio e infangato per sembrare più bestia e non avere quell'aria da innocuo pensionato anzitempo. Non ha mai sofferto, poveretto, perché cerca di non lamentarsi mai: quando lo fa, è perché non ha altro da fare. Quella mattina fu così, ché pioveva forte: da tempo immemorabile si perpetrava quella specie di veglia rituale. Non voleva che io disegnassi quella stramaledetta cosa; invidia canina o altro, gli dava fastidio perché semplicemente mi dimenticavo troppo di lui.
Dalla terra emergeva l'acre odore di pioggia che di solito battezza il mondo ad ogni acquazzone. Anche minimo, a lui dava fastidio. Non si era in chiesa: la chiesa era l'aria.
Spesso, dopo questa benedizione divina, ci si trova coi capelli bianchi. E angeli – se è questo il punto – giovani e pure saggi non lo si diventa mai. Angelo è chi ha aspettato che per anni la pioggia gli cadesse sul viso, sugli occhi, sulle ali. Con le ali inzuppate non si vola, e ognuno di noi ha smesso di volare – per sempre – per poter stare un po' qui, tra i dannati di questa Terra. Ognuno è libero di scegliere.
Denigrato, ha alla fine accettato il compromesso di evaporare senza rumore alcuno, senza aver mai ricevuto amore, avendo solo assistito al pianto più sincero della natura, essendone colpito. E ha capito: ha capito che uomo e natura son due cose diverse, e doveva, o poteva soltanto, morire da uomo. L'amore non lo aspettava più.
A costui, che resta? Un cane, magari.
Si aspetta che il mondo svanisca sotto gli starnuti di qualche dio, semmai passerà di qui, si aspetta che tutto finisca - con la pioggia, in una pozza d'acqua dimenticata ch'é il capro espiatorio delle nuvole – e venga poi il resto.
Amare è difficile almeno quanto aspettare la pioggia per disegnarla.
Il foglio è lì, pronto da un pezzo. Sono io che tutte le volte non sono pronto.
Se la luce la finisse di colpire quel foglio e ricordarmene! Gli occhi restano sempre appollaiati su quei cumuli di vapore, lasciti di poderose navi e vele loro stessi, che si sparpagliano e seminano.
Anche quando non lasciano cadere nulla, riempiono il cielo e mi attraggono.
Matt si stende sul mezzo divano alle mie spalle, e con due movimenti di coda rovina tutto. Fa cadere libri, disegni, matite e mi guarda come un imbecille.
“Già,” - gli dico – “ l'imbecille sono io”.
Apro la finestra e lascio solo entrare la luce, la sera. I lembi viola del retro degli ammassi bianchi si trascinano malaticci al vento, come lune dalla faccia buia - paiono sfiorare le case che lambiscono con mani protese - si riformano per centinaia di migliaia di volte senza perdersi di vista, neanche per poco. Che sfiga, essere omuncoli di carne, e non poter vivere così. Io non ho ancora disegnato la mia maledetta pioggia.
Finalmente, dopo qualche giorno, posso iniziare. Scorre lieve e a puntini che paiono immobili, una pioggerella dei primi di agosto. Alcune gocce risalgono mentre le altre scendono dopo aver urtato il davanzale. Matt si lamenta con guaiti moderati e insistenti.
“Sta' zitto, ora che ci riesco” e punto la matita sul foglio come un'unghia così forte che la mina si incrina. Trattengo la rabbia e la punta che vuol saltare via. Disegno. Vengon fuori delle lineette sottili e nervose. Il sole si è spento allora, e le nubi son tutte viola; un po' di arancione è rimasto sulla cima e s'infiltra verso gli strati più bassi.
La pioggia picchiettava intanto il foglio sul serio. Matt era fradicio, spruzzato da spilli d'acqua dal muso alle zampe, ed ebbe l'infima idea di dare un'ultima secchiata a me e al foglio trasformandosi in una centrifuga vivente. Poi tornò calmo e indifferente. Lui era me, io la bestia.
Lo presi per il collare e lo spostai nell'angolo di sua pertinenza, dove doveva stare.
Fuori è grigio, quasi buio. Ma continua a piovere. Si sentono le gocce che s'infrangono sulle lamiere come le onde marine sui loro scogli, di notte, proprio quando nessuno o pochissimi riescono a sentirle.
Lasciai la finestra aperta; io mi sedetti di fronte, abbastanza lontano per non prendere la pioggia addosso. L'indomani, vidi che il foglio era distrutto. Della pioggia che l'aveva reso così non c'era più traccia, il cielo era limpido. Le nuvole avevano fatto la stessa fine.
Matt me lo aveva sempre detto, che non ero un angelo.
L.M
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