domenica 29 maggio 2011

Via dei Pini

In macchina, sul sedile posteriore, nel bel mezzo della fila di nostra vita, ebbi... un sogno.

All'inizio c'era un bosco. La sensazione di spazio e lo sfiorarsi oscillante delle canne secche al sole, ai lati della strada, fu sospesa solo da un ronzio leggero di catene di bicicletta. Tre o quattro ne passarono – tutte con su una maglia rosa – e ugualmente agli insetti, arrivarono e se ne andarono in una manciata di secondi. Ero solo.

Alzandomi, i rami coprivano fino al cielo ciò che vedevo. Ne lasciavano tuttavia un oculo aperto alla sommità, come in un Pantheon consacrato alla Natura, o a Madre Terra, o a Madre Aria giacché era vuoto e la luce non scostava rami né disegnava ombre per terra. Si viveva e respirava quasi per inerzia, piante comprese. La dimensione umana si rimpiccioliva al suono dell'humus calpestato.

Avanzai un poco – sottilmente fiacco, però tanto sazio di vedere che vorresti fermarti a tratti per piangere su ciò che non ricordavi di aver visto, e ora vedi – e mi fermai. La via si inerpicava in fondo tra i pini come se fosse annodata ai rami, progressivamente sempre più su, sino a sfiorarne la cima, o magari la base del cielo. La cima in effetti era difficile da scorgere. Alle tredici l'ombra si adatta alle sagome e si nasconde sotto di esse, sotto i tuoi piedi, sotto qualsiasi cosa. Nessuno, nessuna cosa ha più la sua ombra; l'ombra cessa di esistere e ti lascia in pace per circa dieci minuti con la promessa che non vedrà dove vai.

Visto che l'ombra non cambiava, né avanzava per scrutare la strada prima di me, il sogno era tarato sempre sulla medesima ora. Non avevo orologio perché quando devo disegnare non lo indosso mai, portandolo per giunta sempre a destra.

Dopo essermi abbontantemente fermato, riprendo a camminare. La strada, come previsto, sale. Gli alberi salgono anch'essi; in compenso lasciano un po' più di spazio al cielo, che guardacaso si strappa sopra una zona più larga. Sotto, una casetta di legno odoroso. Ingrassato col gelso, forse, che là attorno abbondava. L'aria era anzi fatta di gelso, oltre a una vegetazione che espirava soltanto e fittamente. Non c'erano animali, gli uccelli si sentivano ma distanti. Il fruscio della vegetazione aveva, sentendolo,lo stesso fare elettrostatico delle canne secche, le stesse carezze lente e interminabili, lo stesso ronzio acuto e dissolto in marosi di foglie. Raggiunsi la casetta con foglie di tutti i colori sotto i piedi: la porta era socchiusa, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di chiuderla, visto che si reggeva soltanto attorno a scorze di legno più che al legno stesso, profondamente scorticato. Entro, e vedo delle sedie. Al loro centro un tavolo, con un foglio. E sul foglio era scritto ciò che mi ha fatto svegliare: ricordati di prenotare, la prossima volta.

L.M

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