Gagarin fece il suo volo. Era il primo, in assoluto.
Quando vide dal Vzor della Vostok il suo cielo, gli sembrò preparato apposta per lui, un campo seminato come i campi che aveva visto da piccolo – quelle cose sì, durano tutta una vita – ma non chi seminava. Chi aveva seminato c'era già stato, ma non era lì: il campo, ora che era pieno, era abbandonato.
Lo colpì il buio abissale che pareva tirare le ombre fin fuori alla nave, ad ogni rotazione dell'abitacolo. Era una luna in miniatura che compiva la sua nascita e morte in cento minuti circa. Fu un'escursione tra luce e ombra, quel primo passo dell'uomo oltre la sua stessa mente. I suoi occhi avevano come unico riferimento quelli puntati degli spettatori che invano scrutavano il cielo per poter vedere chi c'era lassù, e lo strumentino cardanico, quella piccola finestrina che dava su una terra dipinta che oscillava paurosamente e, ansiosa, tremava sotto l'abitacolo-pedina. Sopra c'era il vuoto che occupava più lo sguardo che i pensieri raccolti al lancio, con gli occhi bassi; avrà pensato mille cose Gagarin, vedendo il cielo uniforme e la sua casa sterminata e ancora troppo vicina. Questo volo gli sarà piaciuto più dei precedenti per la diversità del cielo che osservava: fu il cielo il vero protagonista, incomunicabilmente nero e vivo. Come per tutti i Russi, fu per gli altri uno spettacolo ridotto a poche, intense parole.
L.M
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