martedì 31 maggio 2011

Alla luna

Luna,
ovunque tu si',
dimme che ci sé
cu sta 'ppressu a mia,
cu le stelle
e le galassie n' rote,
che 'ntu ciel se fote
ù forte sole
quann'é rosse, tante rosse
ù sù foche.
S'ù ciele é 'na rote
cu cont'a vite mie,
e pé cuntarla, me vede,
tegne na sole vote,
aggià rubbà tante stelle
int'a vita mia,
ché 'nna sole
è troppe poche
ppé purtarla
int'à casa mia.

P.s. Questi versi non sono di tradizione tarantina né di altri contesti, li ho scritti io approssimandoli a un generico dialetto salentino.

L.M

lunedì 30 maggio 2011

Aforismi III

Aforismi III

Io non scrivo nè leggo.
Io non faccio nient' altro che passare del tempo nell' attesa che succeda qualcosa.


GP

domenica 29 maggio 2011

Via dei Pini

In macchina, sul sedile posteriore, nel bel mezzo della fila di nostra vita, ebbi... un sogno.

All'inizio c'era un bosco. La sensazione di spazio e lo sfiorarsi oscillante delle canne secche al sole, ai lati della strada, fu sospesa solo da un ronzio leggero di catene di bicicletta. Tre o quattro ne passarono – tutte con su una maglia rosa – e ugualmente agli insetti, arrivarono e se ne andarono in una manciata di secondi. Ero solo.

Alzandomi, i rami coprivano fino al cielo ciò che vedevo. Ne lasciavano tuttavia un oculo aperto alla sommità, come in un Pantheon consacrato alla Natura, o a Madre Terra, o a Madre Aria giacché era vuoto e la luce non scostava rami né disegnava ombre per terra. Si viveva e respirava quasi per inerzia, piante comprese. La dimensione umana si rimpiccioliva al suono dell'humus calpestato.

Avanzai un poco – sottilmente fiacco, però tanto sazio di vedere che vorresti fermarti a tratti per piangere su ciò che non ricordavi di aver visto, e ora vedi – e mi fermai. La via si inerpicava in fondo tra i pini come se fosse annodata ai rami, progressivamente sempre più su, sino a sfiorarne la cima, o magari la base del cielo. La cima in effetti era difficile da scorgere. Alle tredici l'ombra si adatta alle sagome e si nasconde sotto di esse, sotto i tuoi piedi, sotto qualsiasi cosa. Nessuno, nessuna cosa ha più la sua ombra; l'ombra cessa di esistere e ti lascia in pace per circa dieci minuti con la promessa che non vedrà dove vai.

Visto che l'ombra non cambiava, né avanzava per scrutare la strada prima di me, il sogno era tarato sempre sulla medesima ora. Non avevo orologio perché quando devo disegnare non lo indosso mai, portandolo per giunta sempre a destra.

Dopo essermi abbontantemente fermato, riprendo a camminare. La strada, come previsto, sale. Gli alberi salgono anch'essi; in compenso lasciano un po' più di spazio al cielo, che guardacaso si strappa sopra una zona più larga. Sotto, una casetta di legno odoroso. Ingrassato col gelso, forse, che là attorno abbondava. L'aria era anzi fatta di gelso, oltre a una vegetazione che espirava soltanto e fittamente. Non c'erano animali, gli uccelli si sentivano ma distanti. Il fruscio della vegetazione aveva, sentendolo,lo stesso fare elettrostatico delle canne secche, le stesse carezze lente e interminabili, lo stesso ronzio acuto e dissolto in marosi di foglie. Raggiunsi la casetta con foglie di tutti i colori sotto i piedi: la porta era socchiusa, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di chiuderla, visto che si reggeva soltanto attorno a scorze di legno più che al legno stesso, profondamente scorticato. Entro, e vedo delle sedie. Al loro centro un tavolo, con un foglio. E sul foglio era scritto ciò che mi ha fatto svegliare: ricordati di prenotare, la prossima volta.

L.M

sabato 28 maggio 2011

Aforismi II

Aforismi II


Non riesco a concepire l'eccezione perchè faccio di ogni eccezione la regola.

venerdì 27 maggio 2011

I bambini si producono?


I bambini si producono?

Raramente scrivo di attualità, ma ciò che vi sto per dire forse merita, forse no - fate voi.
In un articolo di Marta Dassù (La Stampa, 8 maggio scorso) sul metodo educativo della signora Amy Chua spiccano queste parole:

"La tolleranza zero li rende più felici e più forti per affrontare la vita": robottini che non sanno pensare.
E più sotto: "Non esiste un'unica formula giusta per produrre bambini felici, sani, riusciti".

Complimenti alla traduttrice o all'autrice: da oggi i bambini sono prodotti in serie ed etichettati come 'ubbidienti'. In basso, leggiamo le caratteristiche comportamentali: non va dagli amici, non ha il diritto a socializzare, non richiede svaghi o altre coccole, non richiede attività fisica (è una perdita di tempo e quindi non è salutare), non ha bisogno d'essere informato sull'oggi, sa suonare meccanicamente.

E la mamma è contenta, ha fatto un vero figlio: un disadattato che non può uscire dalla fabbrica.

L.M

giovedì 26 maggio 2011

Aforismi I

Aforismi I


Sentire il dolore come un errore, come un' ingiustizia, frutto di un limite, di una sconfitta dell' uomo davanti al suo essere uomo, davanti a Dio.

GP

mercoledì 25 maggio 2011

Lettera a quattro mani

Lettera a quattro mani


Ognuno di noi lascerà su questo foglio le proprie verità. Inizio io.

Lei gli strappa dalle dita la penna.

Aspetto, come mille volte in questi anni, che tu le scriva - e ripassa la penna a lui.

Vuoi che ti dica, Marilé, come stanno le cose?

Dimmelo. - ha scritto lei.

Chi aspetta cosa? - mette lui.

Aspetto l’amore. - dopo un punto ben marcato, depone la penna e lo guarda. Lui la tira verso di sé con delicatezza, e la solleva.

L’amore è la più riuscita buffonata in cui caschiamo interi. Chi ci casca

è per non dimenticarsi di dover vivere.

La penna la prende lei. Non fare troppo il filosofo, dice, e scrive un rigo più sotto:

Eppure vive, vive e muore.

Prendo la penna e lascio lì, di getto:

Poi ci siamo noi, eterni ingenui. Abbiamo o non avremo amato mai, respiriamo e ricordiamo cose. Passate o poco presenti, e amiamo quelle cose.

Continua - disse, preferendo lasciarmi scrivere. Non mi feci pregare una seconda volta.

Si sfiorano parti remote, sempre calde al punto giusto, delle cose amate e si amano ancora: un giorno ultimo pare doversi sempre rifissare.

A quel punto si riprese la penna. Scrisse:

E perciò siamo informali,

informali come l’acqua. Siamo fatti

per leggere e morire, leggere e morire,

eternamente.


L.M


martedì 24 maggio 2011

Il pelo nell'uovo

Il pelo nell'uovo

Al telefono:
- Quindi non t'ha pagato?
- No no, il ragazzo ha perso pure il lavoro.
- Certo, una figa poteva pure fartela conoscere?!
- Ma una tipa me l'ha fatta conoscere.
- Davvero?
- Sì, sì, una ragazza, pure interessante. Studia giurisprudenza, è intelligente, simpatica, direi brillante. Non è una di quelle persone che sta sempre in silenzio, anche conoscendoti poco cerca subito di metterti a tuo agio, e ci riesce senza esagerare. Riesce a parlare di tutto, da " che tempo che fa" ai massimi sistemi dell' universo. Pensa che una volta abbiamo chiacchierato per due ore senza accorgercene! Nell' abbigliamento è curata, ma non esasperata, e non bada a quel che fai, a quanti soldi hai in banca o a cosa fa tuo padre, affatto, è una persona molto alla mano. E' in salute, mangia con piacere mantenedo, comunque, una certa grazia. Legge molto e di tutto, ed e' anche in grado di commentare accuratamente le proprie letture. E' appassionata di cinema, e sa suonare il piano. Da piccola ballava anche, adesso ha smesso, non so bene perché. Ecco, un difetto ce l'ha. Oddio non è proprio un difetto, diciamo che se proprio devo esser pignolo,
se proprio devo andare a vedere il pelo nell' uovo, di contro a tutti i suoi pregi, ai suoi mille aspetti positivi, al suo fantastico carettere, ecco, purtroppo c'ha il cazzo. Purtroppo.

lunedì 23 maggio 2011

45° minuto

45° minuto

“Non uscire da quella porta, non andartene”. La voce era percepibile appena.

Erano fuori dal campo da 45 minuti, lui e suo padre. Sentivano la partita combattersi al di là degli spalti. Ci erano abituati: tra di loro parlavano alle opposte estremità di una spalliera, il padre accucciato a terra e il figlio un po' su, con la testa sotto il cuscino. Ogni mattina era stato così, tranne quella, perché il padre gli aveva detto che il posto allo stadio se lo dovevano guadagnare.

Seduto, con il braccio penzoloni dal finestrino completamente aperto, il ragazzo boccheggiava cogli occhi alzati, per notare ogni sgualcitura del rivestimento sotto il tettuccio dell'auto. Il padre, mani sul volante sin dall'inizio, gli sedeva accanto. Lui però vedeva la polvere sul cruscotto alzarsi a ogni “gol!” che la radio emetteva dalla piastra dell'altoparlante. Erano stanchi tutt'e due, stanchi uno dell'altro.

Ad un tratto il padre si girò a guardare il figlio appeso al cotone grigio che gli sormontava la testa.

“Ehi, andiamo via. Ti va? In fondo, non è poi così bello starsene fuori al sole per un pallone che neanche vediamo, semmai.. lo vedremo, no?”

Il ragazzo girò piano la testa. “Sì, dai, andiamo” disse, e si drizzò sul sedile.

Fecero il giro attorno allo stadio, poi sulla tangenziale che lo incarta e lo stringe in un fiocco, come un pacco regalo.

Raggiunsero presto la campagna. Il ragazzo non fiatava: sporgeva appena la mano e con le dita sfiorava l'erba secca e qualche spiga che si avventurava lungo la strada. Aveva nostalgia di quelle tante e piacevoli cose che facevano insieme una volta. Sentiva nell'erba, comunque, la forza dell'infanzia che proprio non gli era passata; con l'odore di verde tanto forte, la sua voglia di giocare con le spighe era perenne.

“Papà” - iniziò - “tu mi vuoi bene? Bene davvero?”

Lui si girò di colpo, a rischio di sbandare.

“E tu? Io sì, ma tu non mi pare” e tacque. Solo la strada, sempre la strada, si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali e gli luccicava negli occhi. La radio era ancora accesa: ma erano troppo concentrati l'uno sull'altro per accorgersi delle grida che vi provenivano. La polvere, il cotone grigio ingiallito dal tempo, la voce del cronista, la partita non avevano più senso per loro.

Immediatamente si guardarono fissi, e risero. Risero del mondo, che li voleva far fuori.

L.M

sabato 21 maggio 2011

‘Patasabato VII

Ecco, al VII, la mia definizione:

La patafisica è l'idea innata per eccellenza.

Le soluzioni immaginarie sono idee innate; eppure sono le più difficili a comprendersi. Non c'è nulla da sapere: bisogna solo esser capaci di leggere le cose al contrario, rovesciando loro le maniche. La patafisica non si insegna nelle scuole, ma si vive: la vita stessa rischia di diventare la soluzione immaginaria di se stessa. Pensando da carcerati - della propria mente - pur stando fuori a deriderci mentre ci affacciamo dalle sbarre. E' morire al contrario, con gli occhi che si aprono. E' giocare a fare i pazzi quando si è i più savi del mondo. In fondo, come ha avuto occasione di dire Miller, i pazzi sono quelli che hanno accumulato un gran numero di follie ragionevoli, non vi pare? Saremo pure pazzi, noi patafisici, ma ci divertiamo..... . .

L.M

venerdì 20 maggio 2011

Novanta

90

- Che stai facendo?
- In realtà nulla, oggi ho la pausa. Sto cercando uno sfondo per giugno.
- Non hai proprio un cazzo da fare?!
- Eh già...
- Quando ci vediamo?
- Scendo oggi pomeriggio, verso le sei.
- Vabbè, ma visto che non hai impegni perchè non scendi stamattina?
- Ok dài, a che ora ci vediamo?
- No, io non ci sono, ho da fare.

Novanta minuti d' applausi!!!

GP

giovedì 19 maggio 2011

Il primo figlio

Amore è il primo figlio di questo mondo.
Dunque, perché non si ama , o non si vuole, o non si può...amare ?
Se davvero amare è vivere, gli sguardi della gente mormorano solitudine. Le pupille sono sole in un mare che geme, e bisogna essere investigatori che nella loro stanza, alla radio, al buio sui microfoni, riferiscono quello che vedono negli altri.
Ma io amo tuttavia: amo perché vivo.

L.M

mercoledì 18 maggio 2011

I Potenziali Evocati

I Potenziali Evocati


Dopo ventiquattr'ore di tempesta l' unico rifugio rimasto era al settimo piano. Là ne ho vista di gente, ma sopratutto l'ho sentita: un lamento continuo e alternato scandiva il peso dei secondi. La testa faceva troppo male, non potevo focalizzare, ma mi sentivo tranquillo; al muro era appesa una strana scritta di cui non capivo il senso. Ma, mentre una stupida infermiera tentava di farmi svenire scavando con un ago in vena, mi sentivo un eroe, io con tutti gli altri, al settimo piano, in alto, al settimo cielo. Se siam vivi nonostante tutto questo, a dispetto di tanta sofferenza, incapacità, imperfezione, beh, siamo davvero dei supereroi, noi e i nostri fantomatici potenziali evocati.

GP

martedì 17 maggio 2011

Vedo dall'attico


Vedo dall'attico

Vivo in una stanza all'altezza delle rondini.

Anzi, più che una stanza, è lo spazio che circonda una finestra. Da lì vedo, e faccio entrare, ciò che c'è fuori senza che io mi sporga troppo; le auto, le grida, la pioggia, ogni cosa.

Matt, il cane, aspetta nell'unico angolo buio e infangato per sembrare più bestia e non avere quell'aria da innocuo pensionato anzitempo. Non ha mai sofferto, poveretto, perché cerca di non lamentarsi mai: quando lo fa, è perché non ha altro da fare. Quella mattina fu così, ché pioveva forte: da tempo immemorabile si perpetrava quella specie di veglia rituale. Non voleva che io disegnassi quella stramaledetta cosa; invidia canina o altro, gli dava fastidio perché semplicemente mi dimenticavo troppo di lui.

Dalla terra emergeva l'acre odore di pioggia che di solito battezza il mondo ad ogni acquazzone. Anche minimo, a lui dava fastidio. Non si era in chiesa: la chiesa era l'aria.

Spesso, dopo questa benedizione divina, ci si trova coi capelli bianchi. E angeli – se è questo il punto – giovani e pure saggi non lo si diventa mai. Angelo è chi ha aspettato che per anni la pioggia gli cadesse sul viso, sugli occhi, sulle ali. Con le ali inzuppate non si vola, e ognuno di noi ha smesso di volare – per sempre – per poter stare un po' qui, tra i dannati di questa Terra. Ognuno è libero di scegliere.

Denigrato, ha alla fine accettato il compromesso di evaporare senza rumore alcuno, senza aver mai ricevuto amore, avendo solo assistito al pianto più sincero della natura, essendone colpito. E ha capito: ha capito che uomo e natura son due cose diverse, e doveva, o poteva soltanto, morire da uomo. L'amore non lo aspettava più.

A costui, che resta? Un cane, magari.

Si aspetta che il mondo svanisca sotto gli starnuti di qualche dio, semmai passerà di qui, si aspetta che tutto finisca - con la pioggia, in una pozza d'acqua dimenticata ch'é il capro espiatorio delle nuvole – e venga poi il resto.

Amare è difficile almeno quanto aspettare la pioggia per disegnarla.

Il foglio è lì, pronto da un pezzo. Sono io che tutte le volte non sono pronto.

Se la luce la finisse di colpire quel foglio e ricordarmene! Gli occhi restano sempre appollaiati su quei cumuli di vapore, lasciti di poderose navi e vele loro stessi, che si sparpagliano e seminano.

Anche quando non lasciano cadere nulla, riempiono il cielo e mi attraggono.

Matt si stende sul mezzo divano alle mie spalle, e con due movimenti di coda rovina tutto. Fa cadere libri, disegni, matite e mi guarda come un imbecille.

“Già,” - gli dico – “ l'imbecille sono io”.

Apro la finestra e lascio solo entrare la luce, la sera. I lembi viola del retro degli ammassi bianchi si trascinano malaticci al vento, come lune dalla faccia buia - paiono sfiorare le case che lambiscono con mani protese - si riformano per centinaia di migliaia di volte senza perdersi di vista, neanche per poco. Che sfiga, essere omuncoli di carne, e non poter vivere così. Io non ho ancora disegnato la mia maledetta pioggia.

Finalmente, dopo qualche giorno, posso iniziare. Scorre lieve e a puntini che paiono immobili, una pioggerella dei primi di agosto. Alcune gocce risalgono mentre le altre scendono dopo aver urtato il davanzale. Matt si lamenta con guaiti moderati e insistenti.

“Sta' zitto, ora che ci riesco” e punto la matita sul foglio come un'unghia così forte che la mina si incrina. Trattengo la rabbia e la punta che vuol saltare via. Disegno. Vengon fuori delle lineette sottili e nervose. Il sole si è spento allora, e le nubi son tutte viola; un po' di arancione è rimasto sulla cima e s'infiltra verso gli strati più bassi.

La pioggia picchiettava intanto il foglio sul serio. Matt era fradicio, spruzzato da spilli d'acqua dal muso alle zampe, ed ebbe l'infima idea di dare un'ultima secchiata a me e al foglio trasformandosi in una centrifuga vivente. Poi tornò calmo e indifferente. Lui era me, io la bestia.

Lo presi per il collare e lo spostai nell'angolo di sua pertinenza, dove doveva stare.

Fuori è grigio, quasi buio. Ma continua a piovere. Si sentono le gocce che s'infrangono sulle lamiere come le onde marine sui loro scogli, di notte, proprio quando nessuno o pochissimi riescono a sentirle.

Lasciai la finestra aperta; io mi sedetti di fronte, abbastanza lontano per non prendere la pioggia addosso. L'indomani, vidi che il foglio era distrutto. Della pioggia che l'aveva reso così non c'era più traccia, il cielo era limpido. Le nuvole avevano fatto la stessa fine.

Matt me lo aveva sempre detto, che non ero un angelo.

L.M

lunedì 16 maggio 2011

Basilicata coast to coast

Basilicata coast to coast

" Peppe, io ti voglio bene come se tu fossi normale ".
Questo mi ha detto ieri un amico di ritorno da un matrimonio di 14 ore.
E può sembra una battuta, o una frase cinica, negativa, o peggio, cattiva; ed, invece, mi ha fatto sentire bene, mi ha detto che per gli amici, quelli veri, qualsiasi cosa tu sia, qualsiasi cosa tu faccia, loro ti accetteranno sempre, ti vorranno sempre bene anche a costo di deformare, per questo, la realtà delle cose.
Tu rimani sempre te stesso, sono loro a metamorfizzarti, senza alcun dolore.

GP

sabato 14 maggio 2011

‘Patasabato VI

Pa Ogni cosa inutile è un'idea innata.
ta Provate a pensare a come poter trasformare un oggetto inutile, monco,
sa mai veramente nato, in qualcosa che *abbia senso*. Impossibile, vero?
ba Quando avevamo un'auletta all'università, si era indecisi se trasformare
to un oggetto qualunque, un mezzo resto di scrivania sventrato e separato
VI prematuramente dalla madre (la scrivania), in qualcosa di meglio. Dopo aver preparato una lista con quaranta possibili funzioni (incluso un frigorifero da raffreddare chissà come) abbandonammo l'idea. Era talmente inutile da esser utile così com'era.

L.M

venerdì 13 maggio 2011

Il senso della vita

Il senso della vita

"Oh, è partito. Bene donne, bene donne, auguri, auguri, auguri, auguri, ma auguri di cosa, veramente, auguri di cosa, ma riflettiamo: siete delle merde, ma delle merde senza offesa. Perché siete state create e concepite in questa maniera. Ma vi rendete conto che siete delle merde, ma delle merde? Perché, ma, guardate, abbiamo avuto quasi 300 o 350 Papi, non so esattamente, comunque la cifra si aggira intorno a quella, a quella lì, ma nessun Papa ha detto la Verità, ha detto soltanto che noi uomini siamo stati concepiti a sua immagine e somiglianza come l’immagine di Dio, cioè, che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, però nessuno ha detto che l’uomo scorreggia, e cioè, se l’uomo scorreggia allora vuole dire che anche l’uomo... che anche... chiedo scusa, anche Dio scorreggia. Voi poi sapete benissimo che, vabbè, che, poi, Dio ha tolto una costola dall’uomo e siete state create voi donne che siete la rovina, il male nocivo di noi uomini, e siete... e insomma, Dio ha creato la donna e anche voi fate le vostre puzze. Cioè, mi spiego meglio: l’uomo incontra i piaceri della donna attraverso il sesso, e cioè, prendiamo ad esempio gli attori porno, Rocco Siffredi.
Vi chiava, chiava le loro colleghe attrici attraverso... attraverso... inculando e... inculando, o leccando il buco del culo dove escono le scorregge e le merde, cioè, è una cosa veramente indegna, schifosa, che a me mi prende il voltastomaco. Oppure, per esempio, leccando la fica dove esce il sangue, la mestruazione, oppure, per esempio, quando vi sbatte l’uccello nella fica, per esempio, si riempie d’aria e da lì poi esce la scorreggia della fica, tra virgolette, che può pure puzzare, mamma mia! Oppure, per esempio, quando fate il bocchino, dove, per esempio, potreste avere qualche dente cariato, oppure, per esempio, avere i denti pieni di tarlo e, che so io, oppure dove esce, per esempio, la saliva, lo sputo, per esempio. Insomma, sono cose, sono cose di fatto, ecco.E questa è la Verità, questa è la Verità.Voi vi mettete i profumi, andate dal parrucchiere e vi sistemate i capelli, non volete i capelli a doppio... le punte a doppi... i capelli a doppia punta, ma vi rendete conto? Poi, vabbè, cercate gli uomini... degli impiegati di banca, impiegati assicurativi, che so io, e poi, vabbè, non volete mettervi coi morti di fame, tipo... perché no, perché, chiedo scusa, perché non vi mette con i barboni, ad esempio, non sono uomini con l’uccello? Magari ci sono barboni ben dotati, perché no, eh? Perché non vi sposa... non andate in chiesa con i barboni? Non ho mai visto una sposa a sposarsi con una barbone, ad esempio, chissà perché. Oppure, per esempio, sposarsi con un obeso di 200 chili, io non l’ho mai visto, eh? Fate schifo, fate schifo! Io, guarda, guardate, io sono pugliese, ho deciso di rimanere single perché considero le donne una merda, una merda. E non mi vergogno di dirlo, anzi, denunciatemi: 3398481800. E sono consapevole di quello che dico, e non ho problemi psichiatrici, ok? Faccio questo video consapevole di quello che dico, ok? Mi sono rotto il cazzo di voi donne, che voi fate tanto le spregiudicate, ma chi cazzo vi credete di essere? Chi cazzo vi credete di essere? Sono più puliti gli uomini che voi donne. Siete delle schifose, siete, ma andate a fanculo, andate, vaffanculo!" Giuseppe Simone

Io mi inchino davanti a quest'uomo.
E' il nuovo Messia giunto per donarci la Verità, illuminare la nostra strada, tortuosa ed oscura.
Io mi inchino a te, nuovo Messia, e al tuo manifesto di poetica.

GP

giovedì 12 maggio 2011

Il reggimento

Il reggimento

Si era sulla piazza d'armi, nuda.
Quando si declamavano ancora poesie, si era - tutti insieme - vittima della letteratura, sebbene inculcata a memoria. Era bello farsi uccidere dalla letteratura: ti porta ad una morte precoce ma lenta, e in vecchiaia t'accorgi di esser vissuto per le parole. Poi si intrecciano fiori, poi gesti, poi labbra e ancora oggi parole.
Ma belle parole non sono più, sono grida che non vogliono aiuto.
Il sergente lotta contro l'imperante democrazia di voci e interpretazioni; non gli va a genio che tutti, o troppi siano votati alle lettere. Siccome parlare bene o sottovoce è inutile, si grida.

L.M

mercoledì 11 maggio 2011

Il malato immaginario

Il malato immaginario

Dall' alto verso il basso, soffro delle seguenti patologie:

• Emicrania, con aura e senz' aura, cronica e resistente ai farmaci.
• Sinusite a destra e a sinistra.
• Mal occlusione della mandibola.
• Labirintite
• Ernia cervicale
• Tiroidite
• Scoliosi
• Due ernie del disco alla spina dorsale
• Colite
• Ginocchio sinistro con legamento e menisco rotti; operato.

C'e' chi sta peggio di me... ma io non lo conosco.

GP

martedì 10 maggio 2011

Le scale del liceo

Le scale del liceo sono il dorso e la coda di un mostro.
Mi ricordano i cenci che i vecchi fanno portare, inutili, ai giovani.
Nondimeno hanno la bellezza, unica, del mare sollevato dalla prua
di un sommergibile che va negl'inferi della Terra portandoti dolcemente
sulle sue squame.
Diabolica trovata è farle iniziare e finire dal nulla e nei medesimi punti.
Sei in groppa a un drago che s'impenna.

L.M

lunedì 9 maggio 2011

La poetica della finestra chiusa, e sporca

La poetica della finestra chiusa, e sporca.


Alla fine, ci troviamo tutti in una stanza, e davanti a noi c'è sempre una finestra chiusa, senza infissi, impossibile da aprire, con un solo grande vetro che si affaccia su paesaggi, cose, persone; il vetro, a guardar bene, è sporco, pieno di piccole macchie nere.
Vivere è semplice, basta guardare attraverso, sfocare le macchie e godersi il paesaggio.
Scrivere è semplice, basta guardare le macchie, sfocare il paesaggio, concentrarsi su quei puntini neri che rovinato tutto.
La realtà... la realtà non esiste, forse.
Non è la visione oltre il vetro, né le macchie che si appoggiano su di esso; la realtà, forse, è il vetro stesso.
Impossibile da cogliere, perché riusciamo a vedere solo ciò che sta oltre o ciò che sta al di qua, mai ciò che sta in mezzo.

GP

domenica 8 maggio 2011

Il capodoglio

Il capodoglio

Provate a immaginare per un attimo cosa sia, il cielo scuro.
Mi alzo con la luce delle nove e apro la finestra. Il cielo è grigio, con quelle nuvole coricate e sospese come bolle viste da sotto, in un bicchiere. Sotto la pancia del capodoglio che sfiora questo pezzo di terra e mi soverchia si ha l’impressione d’essere in una macchina del tempo d’epoca romantica. Nuvole a coppe che non offrono se non a chi ci arriva all’orlo, per cui nessuno prende. Solo gli dèi possono prendere e buttare giù pugni d’acqua a mani unite, per divertimento.
Aprendo la finestra, l’aria entra e scavalca l’unica figura al centro che sostiene quel ritaglio rettangolare. Le carte che avete sulla scrivania cominciano a volare, a volare intorno e oltre quella figura-chiave ombrosa che siete. I libri si arricciano perché a loro non piace volare, e si chiudono nelle copertine. La poca luce entra perché la faccio entrare io.
Di quelle giornate si sta in casa, al riparo dalla malinconia della stessa terra, riflessa dal cielo. Io apro invece la finestra, faccio razzolare le carte e guardo fuori.

L.M

venerdì 6 maggio 2011

Vedo

Vedo


Vedo le facce delle ragazze che ho avuto e non.
Mi dico che non mi servono, non ho alcun bisogno di loro nè di altre, di nuove.
Eppure mi stringe forte la gola, e il petto, a sinistra, sembra fare male.
Non è normale, non è giusto; ma è così, e non so perché.

GP

giovedì 5 maggio 2011

Le trecce di Giovanna


Le trecce di Giovanna

Aspettavo in piedi davanti alla sua porta. Poi mi sedetti sul pianerottolo.
“Ricordi quando poggiavo le dita dove non volevi? Lo ricordi? Intrecciavamo le nostre mani sulla tua pancia, fantasticando d’un bambino che, pensavamo, sarebbe nato col primo bacio. Ricordi?”
Il mare ha il pregio di guarire i pazzi dal loro male perenne. Ero un pazzo che toccava il suo mare, le mani erano onde sul pube di lei ancora informe. Riuscivo a volte a tracciarne anche qualcuna sulla sua pelle bianca, quando lei voleva.
Lei aprì un poco la porta, affacciandosi - “Che vuoi..non è più tempo!” disse.
Misi un piede nella scanalatura. “Era come quando eravamo bambini, ricordi?” - le dissi.
Lei abbassava lo sguardo, tentando di chiudere la porta.
“Eravamo a un passo...ricordi, lo ricordi? Con le tue trecce facevi a gara insieme alle onde a chi ...sì, a chi era più bella, più lunga, più chiara…”
“No! No, non lo ricordo!” fece lei.
“In riva al mare, sugli scogli, si stava male, ma ci si stava, io e tu.”
“No, no, non voglio...non ti voglio..”
Le lacrime le vennero appena sotto gli occhi. Allentò la pressione sulla porta - finalmente entrai. Lei era in vestaglia.
La fissai un attimo.
“Come...come, mi hai...mi hai dimenticato? Non sono stato altro che un attimo, allora?”
“No, aspetta, no, è passato..è tutto passato…” diceva trattenendomi un braccio.
“Stai piangendo. Non sono passato per essere dimenticato, io. Ma tu…” - le allentai la vestaglia. Era nuda, completamente nuda sotto.
“Sai che non credevo ci fosse sul tuo corpo una tale bellezza...scalfita..scalfita per colpa dello spirito, non della carne…”
“Ma che dici? Cosa..cosa dici” - diceva fra le lacrime.
“No, no facciamolo, ti prego...ti desidero…”
“No, non posso. Noi non siamo..non siamo più.”
“Non siamo più... insieme, vuoi dire? Dai, su, ti ho sognato e ora che ti ho, non ti concedi? La dai a tutti, me l’hai data nei sogni, ora dammela sul serio!”
“No, non posso. C’é Gianluca di là...c’é Gianluca…” disse accasciandosi con le braccia incrociate sul volto.
“Che...Gianluca? Chi è Gianluca per rubarmi te? Chi é Gianluca!”
Lui uscì, in vestaglia, dalla camera da letto. Mi fissò, mi fissò negli occhi infuocati più del sangue. Non riuscì, nonostante avesse in mano uno di quei vecchi telefoni a disco combinatore, a colpirmi. Non si mosse, impietrito.
“Chi sei tu, chi sei per rubarmi il mio mare? Chi sei? Il mare ci ha voluti insieme, io lo voglio!”
Scorgevo da lì il loro letto. Era distante, non lo toccavo, sembrava ancora tiepido - appena sfatto - come in una foto del cui istante avverti un calore latente, nascosto in fretta sotto le lenzuola.
Lui lasciò cadere pesantemente il telefono sulla moquette blu. Era come la loro vestaglia, quella moquette pesante che soffocava le cose più belle sotto un mare d’un solo colore.
Mi girai verso di lei, e la presi con forza tirandola su. La baciai sul collo - era un punto su cui non voleva essere baciata, perché le dava un piacere incontrollabile.
“Dai, vieni, andiamo” - aggiunsi, e nient’altro. Sentii la porta che si chiudeva sbattendo.
Facemmo l’amore per tutte le volte che avevamo guardato il mare.

L.M

mercoledì 4 maggio 2011

L'ombra dell'età adulta


L'ombra dell'età adulta

Pensavo di passarmela così, ero convinto che sotto quell' albero avrei passato tanto tempo, tutta la vita. Ci stavo bene, sentivo il fiume, il rumore delle foglie e il fresco, vedevo una pace infinita e fuori, dietro, non m'aspettavo null'altro che il successo, un morbido letto intessuto di gloria.
Ora quell' albero non c'è, e con lui la sua ombra. Ora il sole lo guardo in faccia ed abbaglia bruciando come null'altro; per lui son diventato cieco. Attorno troppo silenzio, nessuno che mi dice cosa ho sbagliato, perché non sono quello che avrei potuto; son convinto, ne sarei stato capace. Intanto ingoio immagini di vittoria, immagini che per contrasto mi sbalzano in avanti, mi strappano dal fondo e mi sbattono sul muro.
Mi vedo come sono. Nussun ombra, nessuna pace, nessun odore; solo silenzio.

GP

martedì 3 maggio 2011

La tempesta


La tempesta


Davanti solo case e palazzi, il mare c'è ma è lontano e non lo vedo.
Non importa, le luci elettriche, il silenzio delle cicale mi regalano un inaspettato senso di pace.
Avevo dimenticato quanto fosse bello alla sera affacciarsi al balcone, a maggio, con un leggero vento che rinfresca la pelle e fa sentire ancora giovane. Ma la gioventù mi pare una malattia, la vecchiaia un traguardo; così la vita oscilla fra una meta che non si vuole mai raggiungere, e una malattia da cui non si vorrebbe mai guarire.
Ci son nuvole in lontananza a ricoprir la stelle: la tempesta sta arrivando, facciamo finta di niente.

G.P

lunedì 2 maggio 2011

La Marina è la Marina


La Marina è la Marina

Stiamo in coperta urlando al mare grosso che viene da poppa e sorpassa le murate con fare gelido, senza colpi di clacson. Ci prende a bastonate quando vuole: allora il mare formato ci insegue.
Per il resto ci lascia fare. Siamo già costretti a diventare uomini ubbidendo: il mare non ci ha negato qualcosa. Le lance sono le nostre lettere che ci curiamo di non spedire - se arriveranno mai, arriveranno con noi.
E l’estate la coperta diventa silenziosa come le notti in un sommergibile. Tante sfumature dell’acqua che gioca coi tuoi occhi nei pochi istanti in cui pensi - aggrappato al passamano che sfila lungo i ponti superiori - e non ti chiedi nulla. Osservi come tantissimi altri hanno osservato sulla stessa rotta, sulla stessa nave, figli della stessa bagnarola.
Non si è uomini, altrimenti.
Gli affetti lasciati a terra sono cosa morta? Il comandante non è tuo amico. Finge di essere un padre e ci riesce malamente distaccato. Gli altri sono al tuo stesso posto: più o meno fingono che sia tutta una famiglia, e che la Marina piaccia così com’é.
E’ una famiglia severa che ride solo in fotografia. Che possono capire gli altri, gli estranei che vengono a visitare le navi la domenica o i festivi, del loro universo? A loro non deve andare lo spirito del mare. E’ nostro, ovvero loro.
Le visite le organizzano in sempre più pochi, con sempre più poche cose da vedere per tenerli contenti. Ma i fraticelli sognano e continueranno a sognare e a vedere più cose nella loro cella che sul ponte. E la splendida sagoma esterna resta intatta e non profanata dai miscredenti, consegnata così com’era il giorno prima alla Marina.
Ma di solito tendono soltanto a riverniciare di rosso parti arrugginite: lo scafo è fatto di grumi gocciolanti su grumi che la luce sfiora e inabissa rapidamente al tramonto, e chi sale è per vedere il pezzo che non si può non far vedere. Gli altri non interessano, il mare dal suo punto di vista più intimo e tecnico non interessa, l’aria che sa di metallo mista al salmastro del mare che sale dai boccaporti aperti non interessa. I profani di questa roba non devono respirare nulla. Quelli di terra, è destino, devono salire e scendere.
Quelli di mare invece ci devono sempre stare. Non siamo in guerra però, il mondo non è più quello di trent’anni fa: navigare è divertente in fondo, se a loro non importa navigare, non importa il mare, non importa la Marina, importano i soldi che la terra si tien cara.

L.M

domenica 1 maggio 2011

La classe operaia va in paradiso


La classe operaia va in paradiso


In questi giorni ho letto molte volte che il 1° maggio non è più "la festa dei lavoratori", ma il giorno della "festa della libertà di lavorare o non lavorare".
A cosa dobbiamo questa trasformazione?
La classe operaia è morta. Il capitalismo è il miglior sistema economico-sociale realizzabile sul pianeta Terra; la storia lo dice, il comunismo era una semplice utopia.
Detto questo, cos'è, allora, il lavoro?
Il capitalismo ha modificato la concezione che del lavoro aveva l'uomo: oggi il lavoro non rende liberi, né rende uomini.
Il lavoro rende schiavi.
Si lavora sempre per qualcun altro, c'è sempre qualcuno che guadagna su quello che fa un altro, c'è una piramide umana sopra e sotto ogni lavoratore.
Se tu guadagni 100, sopra di te c'è uno che guadagna 200 e , sotto, uno che guadagna 50.
C'è sempre un padrone, sempre uno schiavo.
La classe operaia ha perso quello che un tempo si chiamava "coscienza di classe".
Il capitalismo, infatti, è riuscito a rinnovarsi, a sopravvivere a sé stesso, trasformando il suo peggior nemico nel suo più potente alleato.
La classe operaia è necessaria al capitalismo; ma il capitalismo la teme, ha paura della sua forza, della sua compattezza, del suo numero.
Una classe operaia socialmente stabile, in costante crescita numerica, culturalmente preparata, è una bomba ad orologeria sulla testa dei padroni.
E allora tocca al capitalismo disinnescare quella bomba senza perdere le proprie caratteristiche di sistema.
Come?
Annullandone la stabilità, la compattezza, il numero in costante crescita, la preparazione culturale; rendendola, cioè, una classe sociale fluttuante, di passaggio, numericamente stabile, disgregata e ignorante.
Gli operai, infatti, se seguono le regole del sistema, possono diventare borghesi, padroni di qualcun altro, oppure, se non sono in grado di ingrassare la pancia del capitalista, possono diventare sotto-proletari, morti di fame esclusi totalmente dalla società.
In tutti i casi servono il sistema: nel migliore delle ipotesi, lo accrescono ingrossando le file dei capitalisti, nella peggiore, non possono attaccarlo, sono inoffensivi.
E dunque l'operaio vive nella speranza di diventare borghese e nella paura di diventare sotto-proletario.
Per questo, non bada più a sé, non si guarda, non si cura della propria condizione, e si annulla, si dimentica.
Al capitalismo non resta che rendere la gente ignorante, e per lui è cosa abbastanza facile, basta, infatti, destabilizzare le scuole, impoverirle; ma non tutte, certo, solo quelle pubbliche ad ogni grado di istruzione.
I borghesi non le frequentano; i borghesi studiano in istituti privati.
E allora tutto è chiaro.
Trasformare la "festa dei lavoratori" nella "festa della libertà di lavorare o non lavorare", è la naturale conseguenza di questo processo, è l'ultimo passaggio per cancellare definitivamente ogni velleità di coscienza, di identità, di forza, che la classe operaia ha.
E' il de profundis dei lavoratori.

G.P.